LIBROPrima edizione nella tiratura non numerata. Rarissima opera prima.Ottimo esemplare appartenente alla tiratura non numerata. Lievi abrasioni perimetrali alla brossura con restauro conservativo al dorso; carte usualmente brunite.La prima raccolta poetica di Pavese, tirata dalle Edizioni di Solaria in sole 180 copie numerate e in una tiratura commerciale non dichiarata. Uscita nel gennaio del 1936 e composta da quarantacinque poesie, un primo nucleo della silloge era già stato consegnato ad Alberto Carocci e alla sua Solaria da Leone Ginzburg nel luglio del 1933. Tuttavia, l’arresto di Ginzburg nel marzo del 1934 e quello successivo dello stesso Pavese nel maggio del 1935 rallentarono il progetto, senza tuttavia fermarlo. Colpito dalla censura che chiese di stralciare – per ragioni di moralità – quattro poesie incluse nella bozza inviata al Ministero, il 16 settembre 1935 Pavese scrive a Carocci dal confino di Brancaleone: «Caro Carocci, ecco, se Dio vuole, le bozze definitive di “Lavorare stanca”. Ho tenuto conto del consiglio del Ministero Stampa e cancello, come vedi, “Il Dio caprone” (piangendo), “Pensieri di Dina”, “Balletto” e “Paternità”. Così il volume potrà ormai servire da libro di preghiere anche per una vergine. […] Con la solita protervia, non so resistere alla tentazione di accludere altre otto poesie, frutto di questi ultimi tempi di calma (“Ulisse”, “Atavismo”, “Avvenire”, “Donne appassionate”, “Luna d’agosto”, “Terre bruciate”, “Poggio Reale” e “Paesaggio”, ndr). Se vedi possibile la cosa, falle unire in coda alle altre, vale a dire dopo “Una generazione”, nell’ordine con cui sono numerate. Ma se ciò dovesse ritardare di troppo la pubblicazione, usa allora della tua discrezione. […] Pensa che dall’estate del ’34 queste poesie pendono. E che, esclusa la torre di Pisa, sempre tutto quanto pende può un giorno cadere» («Lettere. 1924-1944, Einaudi, 1966, p. 439). Ma il tempo dell’effettiva pubblicazione per quello che Massimo Mila (amico di Pavese fin dai tempi del liceo) invitava a guardare come «un libro, non una raccolta di poesie» («Prefazione», in «Poesie», Einaudi, 1962, p. X) non era ancora arrivato. Le precarie condizioni economiche di Solaria, ormai prossima alla chiusura, pesarono enormemente sull’ulteriore ritardo nell’uscita di queste «short stories chiuse e tetre di personaggi tipizzati, che oscillano tra referto realistico e proiezione dell’autore stesso» (Mengaldo, «Poeti italiani del Novecento», Mondadori, 1990, p. 68), tanto che ancora il 27 dicembre 1935 Pavese scriveva alla sorella: «Oggi mi ha scritto Carocci dicendomi che non si trova la carta per stampare “Lavorare stanca”. Mi pareva che le cose andassero troppo lisce!». Il 24 gennaio 1936, tuttavia, ecco una nuova lettera del poeta dal confino, questa volta indirizzata all’editore fiorentino per comunicargli la ricezione del «pacco di “Lavorare stanca”»: «Lacrime, tripudio, auspici, bicchierata: tutto da solo. Evidentemente tu che già fosti stampato e tanti giovani autori battezzasti, conosci a fondo le reazioni psichiche di chi si vede davanti il suo primo libro. Comunque, ecco qua: tranquilla certezza di essere degno del grave onere, raffinata compiacenza dell’ampio frontespizio e delle bianche pagine immense del testo, gratitudine per le medesime, gratitudine per il modico prezzo, gratitudine per tutti e per tutto. Dall’altra parte: nostalgia del “Dio Caprone”, lieve sospetto di aver fatto una sciocchezza, senso di vuoto, nausea verso ogni carta stampata. Credo che tutto sia definito e catalogato da secoli, e quindi smetto» («Lettere. 1924-1944», cit., p. 496).Cfr Pavese e Vaccaneo, Cesare Pavese: i libri (Torino 2008; registrano un esemplare in legatura posticcia privo della copertina originale); Gambetti, Preziosi del Novecento (Alai 3, 2017), p. 21; Sebastiani, Libri e riviste, p. 49; Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, Milano 1990, p. 68